Piccola guida pratica per scoprire il metodo colore LAB, il più affidabile per descrivere i colori ma il meno usato, perché indubbiamente poco intuitivo e poco capito.
Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 99
Scala di grigio, RGB e CMYK: sappiamo consapevolmente quando usarli, muovendoci tra uno e l’altro con disinvoltura, sia pur con qualche approssimazione o eccessiva semplificazione. Invece lo spazio colore LAB ci appare lì, misterioso, tra le voci del menu Metodo di Photoshop e non sappiamo bene che farci: se lo applichiamo, sembra non succedere nulla. Eppure, soprattutto oggi che Adobe ha rimosso le librerie Pantone dai sui programmi, scopriamo che LAB dovrebbe essere la soluzione perché definisce in modo affidabile un colore: ma come? Perché? E quando entra in gioco nel nostro flusso di lavoro? Come funziona davvero? In fondo, non l’abbiamo usato finora, perché iniziare adesso? Tante domande, complicate dal fatto che il LAB non è poi così intuitivo come metodo e non sembra essere un’alternativa agli altri spazi colore.
Il colore come evento
Partiamo dall’inizio. Quando diciamo che una ciliegia è rossa facciamo un’affermazione assoluta che funziona nella comunicazione perché, per approssimazione, diamo per scontato che tutti abbiano sperimentato il colore rosso e comprendano a quale tinta ci stiamo riferendo. Platone direbbe che il meccanismo funziona perché ci riferiamo a un modello esterno immutabile necessario per riconoscere le cose del mondo e confrontarle tra loro. Sappiamo però, per esperienza, che a parità di ciliegia rossa osservata, quel rosso cambia non solo in base alla luce, ma anche alla percezione di chi l’osserva. Bruce Fraser in Real World Color Management, bibbia della gestione del colore, scrive che “il colore è un evento che richiede il concorso di tre elementi: un oggetto, una sorgente di luce e un osservatore”. Se anche uno solo di questi tre elementi cambia, l’evento che chiamiamo colore è diverso, ovvero vediamo un colore diverso.
Tralasciando il metodo CMYK riservato alla riproduzione dei colori a stampa, con l’RGB ci siamo abituati a misurare un pixel secondo le tre coordinate Red, Green e Blue, che possono avere valori cromatici che vanno da un minimo di 0 a un massimo di 255, dal bianco al nero, e a ottenere tutti i 16.777.216 di tinte intermedie, sommando tra loro le diverse proporzioni. Eppure questa rappresentazione non basta, perché entrano in gioco gli spazi colore disponibili per l’RGB che hanno diversi gamut, ovvero hanno diverse gamme di colori riproducibili. È presto dimostrato: campionando un punto qualsiasi dell’immagine sopra delle ciliegie in RGB si ottengono diversi colori a seconda dello spazio colore applicato, sRGB o l’AdobeRGB: stessi valori, colori visibilmente diversi. E allora la ciliegia è sì rossa, ma quale rosso?
Il valore assoluto di un colore
Per avere le coordinate assolute di un colore e uscire anche dall’ambiguità di specificare sempre la variante di RGB, il metodo c’è ed è appunto il CIELAB, creato come modello matematico nel 1931 dalla Commission Internationale de l’Eclarage. La potenza di questo metodo è che a differenza di RGB e CMYK è device-indipendent, in altre parole genera un colore coerente indipendentemente dalla periferica utilizzata per creare o riprodurre l’immagine, sia essa un monitor, uno scanner, uno smartphone, una fotocamera o una macchina da stampa: semplicemente descrive oggettivamente (matematicamente, se preferite) quale colore vediamo in condizioni standard. Di più, il LAB per definizione rappresenta tutti i colori che possiamo vedere attraverso 3 coordinate, definite come L, a e b, o L*a*b (gli asterischi servono a distinguere lo spazio colore LAB da altri spazi con nomi simili come HunterLab e ANLAB, e a e b non significano nulla, solo indicano i due canali colori). Per comprendere come è fatto lo spazio LAB e cosa rappresentano le 3 coordinate possiamo ricorrere a una metafora: nello spazio LAB i colori sono definiti secondo i valori di luminosità, tinta e saturazione; immaginiamo di trovarci in una grande stanza dove al centro c’è un palo: in basso il palo è nero e in alto è bianco passando per tutte le sfumature di grigio: questo è l’asse della luminosità. Muovendoci intorno al palo incontriamo tutte le tinte. Più ci allontaniamo dal palo più i colori diventeranno intensi definendo la saturazione (o croma). Combinando questi 3 elementi si ottiene la descrizione di un colore.
Si tratta quindi di uno spazio tridimensionale che ruota intorno all’asse L (Lightness in inglese) che ci dice solo quanto è chiaro o scuro un colore, senza darci alcuna informazione sulla tinta e sulla saturazione del colore stesso: per questo sarebbe meglio chiamarlo Chiarezza invece di Luminosità. I valori possibili vanno da 0 a 100, dove L = 0 indica il colore più scuro possibile (nero) e L = 100 il colore più chiaro possibile (bianco). Il ruolo delle coordinate a e b, invece, è più complesso, perché come L descrive la chiarezza senza alcun riferimento alla tinta o alla saturazione, così fanno a e b che descrivono tinta e saturazione senza alcun riferimento alla chiarezza. In LAB le coordinate a = 0 e b = 0 danno la condizione di neutralità: appena uno dei due valori cambia appare una tinta. Il valore di a indica se un colore tende al verde (con valori negativi da -1 a -128) o al magenta (con valori positivi da 1 a 127). Lo stesso vale per b che indica se un colore tende al blu (valori negativi) o al giallo (valori positivi). In pratica, maggiore è il valore assoluto delle coordinate a e b, maggiore è la saturazione del colore che definiscono. Come si vede il LAB è l’unico spazio colore che può avere valori negativi. In RGB, non avrebbe senso un valore negativo perché i valori di ciascun colore Red, Green e Blue vanno da 0, che corrisponde all’assenza di quel colore, a 255, che è l’intensità massima che quel colore può avere.
Quindi, giocando a confrontare i colori con il Selettore Colore di Photoshop si scopre che il bianco in LAB ha coordinate L = 100, a = 0, b = 0 che corrisponde a 255, 255, 255 in RGB in mentre il Red in RGB ha valori 255, 0, 0 e in CIELAB è L = 63, a = 90, b = 78, il Green L = 83, a = -128, b = 87 e il Blue L = 30, a = 69, b = -114. Senza prendere una deriva nerd ci basti solo dire che due colori LAB differiscono tra di loro di un valore detto ∆E₀₀ (si legge delta E 2000), dove ∆E₀₀ 1 è la differenza minima percepibile da un esperto di cromia, mentre normalmente si percepisce una differenza di colore intorno a 3. Queste differenze sono misurate strumentalmente da uno spettrofotometro.
Il dato digitale
Fin qui la teoria, ma quali sono le applicazioni pratiche del metodo LAB? L’eliminazione delle librerie Pantone dalle applicazioni Adobe ha fatto emergere una serie di semplificazioni eccessive e ambiguità che non le rendono un sistema affidabile: dall’uso come sinonimi dei termini “Pantone” e “tinta piatta” alla scarsa affidabilità delle mazzette Pantone che cambiano nel tempo, contengono refusi o errori e paradossi nelle ricette con quantità minime di colori talvolta non distinguibili a occhio nudo. Tutto questo rende necessario identificare un modo inequivocabile per definire un colore e comunicarlo affidandosi a quello che si chiama dato digitale, ovvero la sua descrizione in valori assoluti definiti scientificamente secondo lo spazio colore CIELAB. In pratica si tratta di tenere come punto di riferimento le coordinate L*a*b di un dato colore. Se scelgo di usare una certa tinta piatta e prendo come riferimento, per esempio, il Pantone 185 C per come lo vedo sulla mia mazzetta Coated (ma potrebbe essere qualsiasi colore su qualsiasi oggetto), per prima cosa devo ottenere il suo dato digitale, misurando con uno spettrofotometro, correttamente impostato, quel colore: in questo modo, ottengo una misura oggettiva, che non dipende dall’occhio che guarda e dalle condizioni della mazzetta in uso, o della superficie misurata, ma da informazioni spettrali dettagliate e precise. Le condizioni di misura usate dal mondo della stampa sono D50/2°/M2: D50 indica la sorgente di luce, dove la D sta per luce diurna e il 50 per 5000 Kelvin (temperatura della luce), 2° indica in gradi l’angolo di lettura, il valore M indica in che misura tenere conto degli sbiancanti ottici contenuti della carta (M0, M1 e M2 sono presenti nei dati digitali delle librerie Pantone, mentre Photoshop usa solo il valore M2).
Per rendersi conto di come le condizioni di misura influenzino i dati del colore, basta andare sul sito di Nix Color Sensor che produce spettrofotometri per l’industria per la lettura del colore su qualsiasi superficie e inserire tre valori LAB (es. 84/8/54) e vedere come, alla variazione dell’illuminante e dell’angolo di lettura, i valori RGB e CMYK cambino, pur rimanendo identico il colore: questo significa che se non accompagno i valori alle condizioni di lettura, il giallo che ho letto verrà visualizzato o stampato diversamente: es. 84/8/54 con D50/2° corrisponde a RGB 246, 203, 105 e CMYK 3, 20, 69, 0; con D65/10° l’RGB diventa 253, 202, 106 e CMYK 0, 22, 68, 0, con ∆E₀₀ 4 per l’RGB.
Per creare un campione colore di base da usare in tutti gli spazi (tinta piatta, RGB e CMYK) è sufficiente partire dai valori L*a*b ottenuti dalla misura e convertirli semplicemente con il Selettore Colore di Photoshop. La raccolta dei valori cromatici di un colore nei diversi spazi diventerà la sua carta di identità che dovrà essere corredata con le condizioni di misura. Questo perché partendo dal dato digitale L*a*b e allineando le condizioni di misura degli spettrofotometri di tutti gli attori della filiera, dal creativo allo stampatore, è possibile ottenere una misura oggettiva, precisa, affidabile e ripetibile nel tempo, eliminando il fattore soggettivo dell’osservatore con la relativa componente psicologica e le possibili distorsioni dovute alle condizioni ambientali di illuminazione.
Il LAB come metodo di lavoro
Dal punto di vista tecnico, quanto abbiamo descritto ci consente, quindi, di continuare a lavorare secondo il nostro flusso consueto (purché sia corretto), limitando l’utilizzo del LAB alla lettura del colore, oppure possiamo spingerci oltre e usarlo come metodo colore di lavoro per il ritocco e la cromia delle immagini.
A scanso di equivoci, sottolineiamo che passare da qualsiasi metodo di colore al LAB non comporta nessuna alterazione cromatico e l’immagine sembrerà esattamente la stessa: proprio perché LAB contiene tutti i colori possibili, non può verificarsi alcun deterioramento della qualità dell’immagine poiché tutti i colori vengono tradotti inalterati. Inoltre, per Photoshop il LAB è una sorta di spazio colore nativo: infatti, ogni volta che un’immagine viene convertita da RGB a CMYK o viceversa, passa in background attraverso il LAB. Una volta convertita l’immagine, se guardiamo i Canali avremo un canale senza colore (L), più due canali con una doppia combinazione di colori (verde+rosso per il canale a e giallo+blu per il canale b) entrambi privi di contrasto. Torniamo a quanto detto sopra: L determina la chiarezza, ovvero quanto l’immagine è chiara o scura, mentre il canale a è il bilanciamento del colore tra verde e magenta, e il canale b è il bilanciamento del colore tra blu e giallo. Nei punti in cui il canale è di un colore o dell’altro c’è uno squilibrio, nei punti in cui appare grigio medio, c’è un equilibrio tra i due colori. Come con qualsiasi tipo di correzione cromatica in Photoshop, non esiste una formula fissa perché ogni immagine è diversa dall’altra così come il gusto dell’operatore. Però gli interventi sulle curve o sui livelli possono essere fatti esattamente come si fa in RGB, con la differenza che si ragiona in termini di luminosità e di bilanciamento tra i colori, esattamente come vorrebbero LightRoom, Affinity o CaptureOne.
La correzione cromatica in LAB
Un esempio di correzione cromatica in LAB potrebbe essere quello di regolare per i canali a e b un input della curva (end point sinistro) compreso tra -100 e -90 e un output (end point destro) tra 100 e 90, bilanciando lo squilibrio cromatico della prima regolazione; infine alzare il punto medio della curva del canale L senza “strappare” i bianchi. Questo intervento agisce sulla chiarezza dell’immagine allo stesso modo di una regolazione Curve in RGB, ma l’effetto è molto più fine e l’immagine prende maggior definizione. Questo perché in RGB si può agire sulla luminosità dei canali, ma influenzando il colore dell’immagine e non a prescindere da esso come nel LAB.
Una bella applicazione pratica di come in LAB con le Curve si recuperi egregiamente una foto di paesaggio estremamente piatta è nel video di Colin Smith per PhotoshopCAFE ( ). Colin inizia convertendo l’immagine da RGB a LAB per poi creare un livello di regolazione Curve dove modificando a e b carica i colori senza intaccare la luminosità. Siccome le rocce hanno un colore più tendente al rosso rispetto alla vegetazione, crea due maschere per intervenire selettivamente su entrambe sia per quanto riguarda i bilanciamenti di a e b sia per la Luminosità che regola con lo strumento Mano inserendo i punti di ancoraggio nelle zone dove vuole intervenire puntualmente. Alla fine l’immagine viene passata in RGB e di lì alle successive lavorazioni, stampa compresa.
Per abituarsi a ragionare sui colori LAB e su come si influenzano c’è un piccolo schema che definisce l’area di un colore in funzione delle coordinate a e b:
con a > 0 e b > 0 -> rosso/arancio
con a < 0 e b > 0 -> verdi/gialli
con a < 0 e b < 0 -> ciano
con a > 0 e b < 0 -> viola
Il LAB in cantina
La dimostrazione di come il colore non sia poi solo un problema del nostro settore e come il LAB sia un metodo di descrizione del colore valido viene da un mondo lontanissimo da grafica e stampa: l’enologia. Uno dei criteri di valutazione del vino è il suo colore che, non solo per gli intenditori, è una delle prime caratteristiche percepite, capace di influenzare in modo determinante anche le scelte di acquisto dei semplici consumatori, oltre a essere un parametro di controllo della qualità per i produttori. Per questo l’OIV, Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, già dal 2006 ha sostituito il metodo “classico”, basato sulla misura dell’assorbanza a tre lunghezze d’onda, con il metodo CIELAB. Le modalità sono esattamente quelle del nostro mondo: analizzare oggettivamente il colore del vino, confrontarlo con un modello di riferimento da utilizzare in tutte le fasi di produzione e invecchiamento per controllare il prodotto.